Recensione Civil War (2024)

 di Ciro Alessio Formisano



“La Fotografia è violenta: non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi.” (La camera chiara, Roland Barthes)

Giustamente osannato da buona parte della critica, che lo ha già eletto quale miglior opera di questo non ancora terminato 2024, e immeritamente snobbato da buona parte del pubblico, che ha legittimamente preferito rivolgere la propria attenzione altrove, Civil War (2024, regia di Alex Garland) è uno di quei film che costringe lo spettatore ad interrogarsi sul rapporto tra immagine e racconto.
Si potrebbe dire che questa riflessione appartenga ad ogni film, in quanto connaturata all'idea stessa di cinema, che fa della vista - prima ancora dell'udito, e dunque del sonoro - il proprio senso privilegiato. 
E però Civil War, come Blow-Up di Michelangelo Antonioni (1966) e ovviamente Rear Window (1954) di Alfred Hitchcock, appartiene a quella schiera di pellicole che esplicitamente fa del rapporto tra fotografia e cinema non solo un elemento narrativo, ma l'occasione per una speculazione più profonda sulle possibilità dello sguardo. Perché Civil War non è solo un distopico film ambientato in un prossimo ipotetico futuro che vede gli Stati Uniti interessati da una nuova guerra civile, con un governo centrale ormai esautorato dei suoi poteri e inerme dinanzi l'avanzata delle milizie che vorrebbero definitivamente destituirlo; non è solo un'intellettualistica ma lucida meditazione sulla condizione delle nostre fragili democrazie, sempre sul punto di cedere dinanzi le istanze che vorrebbe o dovrebbe rappresentare; è anche e soprattutto un film che si poggia totalmente sulla capacità dello sguardo di farsi testimonianza.
Lo fa avendo come suoi protagonisti quattro reporter di guerra, professione che più di tutte si espone alle considerazioni di cui sopra, dove il rischio di essere feriti o uccisi da un fuoco incrociato, da bombardamenti e mine è costantemente presente,  non meno di coloro che nei conflitti sono direttamente coinvolti. Quattro reporter di guerra che costantemente sono chiamati a fare scelte difficili riguardo a cosa fotografare o riportare, ponderando l'impatto delle loro storie sul pubblico e sulle persone coinvolte, operando in contesti dove le infrastrutture sono danneggiate o inesistenti, con restrizioni di movimento e accesso alle informazioni.
Scenari che immaginiamo ben lontani dai pacifici quartieri residenziali della società statunitense. 

Sorprende la capacità di Alex Garland (che di Civil War firma anche la sceneggiatura) di manipolare con maestria diversi generi narrativi, dimostrando una versatilità eccezionale, sebbene ancora ingenuo in alcuni passaggi - la sequenza tarantiniana, con tanto di esplicita citazione a Pulp Fiction, che coinvolge il personaggio interpretato da Jesse Plemons potrebbe forse infastidire i palati più esigenti... -, ma facilmente si lascia perdonare per una pellicola che nel suo complesso ci ricorda quanto il cinema abbia ancora tanto da esprimere.
Il film inizia come un'opera a sfondo politico, per poi evolversi in un gustoso road-movie e infine trasformarsi in un puro war-movie, il tutto ambientato in un contesto apocalittico che Garland ha già sapientemente esplorato in precedenti lavori (v. 28 days later, 2002). Lo fa affidandosi ad attori pienamente consapevoli dei propri mezzi, a partire da Kirsten Dunst che ci offre una interpretazione in sottrazione, mai così implosa ed essenziale, il cui volto impassibile dinanzi le violenze cui è evidentemente abituata il suo personaggio si contrappone a quello solare e pieno di ambizione della giovane co-protagonista interpretata da Cailee Spaeny. 
Perché è sul rapporto tra le due donne di questa storia a reggersi il tessuto emotivo di Civil War, con un tragico epilogo rappresentato non solo da un passaggio di testimone, ma da un'eredità di sguardo, quello sguardo che è anche di noi spettatori, inermi dinanzi a quanto alla nostra vista si offre; la stessa impotenza che si vive quando, a prescindere dagli schieramenti e dalle ideologie, ti trovi al cospetto di una lontana e anonima figura che punta un fucile su di te: epitome di ogni guerra.  


Civil War è un film indissolubilmente legato ad una delle fotografie più iconiche del XX secolo, quella "The Falling Soldier" scattata da Robert Capa durante un'altra guerra civile, quella spagnola del 1936-1939. L'immagine mostra un soldato repubblicano nell'esatto momento in cui viene colpito da un proiettile nemico, accasciandosi al suolo, in un tempismo talmente fortuito da aver sollevato dubbi sull'autenticità della foto.
Di questi momenti, dove sull'attimo dello scatto si imprime quello della morte, Civil War ne è pieno. "To shoot", d'altronde, può tanto significare 'scattare una foto' quanto 'sparare': a noi la responsabilità della scelta, se c'è. 

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